(2)

Il vento diventa improvvisamente gelido e straccia la mia ultima speranza. Il freddo è sempre la prima cosa che sento… mi si arrampica addosso gelandomi all’istante tutte le estremità. Cerco di resistere alla sensazione tentando di far rimanere almeno nella mia mente la percezione del caldo che è appena scomparso dalla stanza, ma è inutile anche questo. Qualcosa è entrato nella mia testa e ha strappato anche dall’angolo più remoto di essa persino l’idea stessa del caldo, del tepore. È come se avessi freddo da sempre, come se nemmeno un giorno solo nella mia vita io abbia mai cessato di tremare per i brividi. Batto i denti con un gesto istintivo e mi stringo addosso la divisa scolastica sperando di ripararmi un poco, ma il freddo è già dentro, dentro la divisa, dentro la pelle, dentro il mio corpo. L’aria gelida che respiro lo ha portato ovunque.
Voglio chiudere gli occhi, anche solo perché ho la sensazione che mi si congelino a tenerli aperti, ma non riesco a farlo. Fisso invece la mia immagine nello Specchio mentre, dopo la pelle, anche le mie iridi avvertono il cambiamento. La stanza, tutti i suoi mobili bellissimi, il tappeto e i lampadari vengono divorati da una corrosione fulminea, marcendo all’istante e sbriciolandosi in una putrida cenere rugginosa che si solleva nell’aria ricoprendo ogni colore, riducendo l’aspetto di tutto ciò che mi sta attorno alle tonalità che avrebbe una carogna putrefatta. Insieme al freddo, anche la ruggine mi arriva in gola, scendendo fino ai polmoni. Riesco a sentirla distintamente mentre mi soffoca al punto che gonfio il petto come se dovessi scoppiare a ogni respiro, ma mi manca ancora l’aria. Poi comincia a bruciare: sento che gli alveoli non ce la fanno e sanguinano, marcendomi dentro e cominciando a soffocarmi.
Tossisco, tossisco forte per mandare via quella cosa orrenda da dentro di me, ma sento solo che le scosse del diaframma non fanno che squarciarmi di più e la trachea che brucia per lo sforzo inutile e per il sangue che mi risale in bocca. Lo vedo, vedo il sangue di un colore per niente rosso sbavarmi dalle labbra e mi porto istintivamente la mano alla bocca per fermarlo. Quando le dita arrivano al viso, però, sento un dolore lancinante che le percorre. Il gelo intirizzente scompare solo da lì, solo dalla mano, dall’avambraccio, per lasciare il posto un ustione mostruosa che si espande scorticando via la pelle dopo averla ricoperta di vesciche purulente. La carne arsa mi trafigge con un dolore insopportabile anche quando ormai è completamente divorata al punto che non dovrei più nemmeno avere i nervi per sentire il male.
Cerco di gridare per il dolore mentre quello che rimane del moncherino del mio braccio si atrofizza in pochi istanti e poi si stacca all’altezza del gomito; la mia bocca si apre, ma non ne esce che un raglio affogato nel plasma mentre cerco di non soffocare tra gli spasmi del pianto e la tosse rugginosa. Mi piego in due, andando ad afferrarmi quel che rimane del braccio destro col sinistro, come se volessi impedire a qualunque cosa me l’abbia portato via di risalire oltre il gomito. Mentre lo faccio i miei occhi sempre spalancati incrociano se stessi al di là dello specchio, mi vedo in viso… e scordo persino quel dolore tanto ho orrore: la mia bocca spalancata cola ancora sangue, ma a stento riconosco ciò che le sta attorno. I rivoli di plasma colano attraverso denti radi e marci, ulcere e pustole mi coprono tutto il lato destro e le sento scoppiare e colare un siero nauseabondo. Le vene del collo sono dilatate e varicose.
Cerco con tutta me stessa di resistere, di pensare che non è vero, che non sono così… che non sono ancora così. Istintivamente cerco di far correre la lingua sui denti, per contrastare quell’immagine orrenda, per ricordarmi che io sono ancora da questa parte… Ma non è vero. Sento la lingua trovare il sapore del sangue che cola e i vuoti lasciati dai denti cariati e rotti… e la sofferenza delle ulcere sulla lingua stessa che è gonfia e dolorante.
Voglio solo piangere e raggomitolarmi sulla mia misera figura, ma non ci riesco, devo rimanere in piedi, devo guardarmi. Devo vedere i miei capelli biondi che diventano velocemente sporchi e grigi per poi cadere a ciocche disordinate, lasciandomi esposto a chiazze il cuoio capelluto coperto da malsane macchie marroni.
Cerco ancora di piegarmi sulle ginocchia che tremano per l’incessante dolore e l’orrore che mi domina e quasi sembra che mi sarà permesso di cadere, ma proprio allora vedo qualcosa strisciare sotto la pelle butterata del mio viso e, spalancando gli occhi, scatto di nuovo in piedi lasciando il braccio monco per andare a coprirmi il viso. Il panico mi fa scordare l’esperienza; è inutile quello che sto facendo, come è stato inutile tutte le altre volte, ma non ho più memoria, non ho più coscienza, ho solo paura. Cerco di fermare quella cosa colpendomi in viso, per schiacciarla tra la mia pelle e l’osso della mia mandibola, ma vedo il rigonfiamento ricomparire da sotto il palmo e continuare verso l’occhio. Cerco disperatamente di artigliarmi io stessa il viso, di lacerare la pelle per poterlo raggiungere, ma mentre mi spezzo le unghie marce, quello sparisce sotto lo zigomo e sento che comincia a mangiare.
Pazza di terrore grido ancora più forte mentre mi copro l’occhio con la mano e presto da sotto di essa comincia a colare abbondante sangue, mente il dolore all’occhio si acuisce fino al supplizio più insopportabile per poi svanire del tutto insieme al mio bulbo oculare e all’insetto carnivoro che sguscia via dopo il suo pasto, cade a terra e striscia nascondendosi sotto il pesante strato di marciume che imbratta ogni cosa.
Devastata, continuo a guardare la mia figura nello Specchio. Perdere l’occhio mi ha causato uno spasmo di dolore acuto che, anche se ora è passato, mi lascia a boccheggiare, ogni respiro un lamento a metà tra il pianto e l’asma.
“Non sono di lì, non sono di lì” Continuo a ripetermi mentalmente nel tentativo di non impazzire. Ma non è vero. Io sono di lì. Quello che sento è tutto vero. Non sto guardando la mia immagine riflessa che si disgrega. Non sto sentendo il suo dolore. Questa sono io, questo dolore è il mio. Dall’altra parte è rimasto solo il mio sguardo. Non sto guardando il mio riflesso nello Specchio. Sto guardando me stessa quando avrò oltrepassato la soglia della Porta… e solo perché il mio momento non è ancora giunto, lo Specchio, anziché portare tutto ciò che sono al di là della soglia, ha lasciato la mia coscienza, il mio sguardo, prima di essa… Non ci sono due me stessa di cui una è sana e l’altra deturpata… C’è…
Mentre tento di distrarmi dal panico con queste folli elucubrazioni, un’ennesima fitta di dolore mi sorprende alla gamba sinistra. Il mio capo scatta indietro liberando un altro grido strozzato che non riesce nemmeno vagamente a comunicare il brutale squarcio che sento aprirsi nel polpaccio. Per qualche interminabile istante sento le mie ossa opporre resistenza a una terribile torsione, poi, infine, con uno strappo secco, il piede si rigira completamente, il ginocchio si spacca e tibia e tendini vengono strappati dal resto della gamba per poi accartocciarsi e marcire sul posto.
Nelle condizioni in cui sono ridotta, anche se mi sento ancora costretta a desiderarlo con tutta me stessa, non riesco più a reggermi in piedi e, mentre mi irrigidisco nel coatto tentativo di mantenere l’equilibrio, sento di cominciare a cadere.
Ma non posso. Non ancora. Non mi è permesso. Non mi verrà permesso. Delle leggere e affusolate braccia mi passano sotto le spalle e mi sostengono. Da dietro di me la Direttrice mi sorregge. So che è lei solo perché la vedo accanto a me con la coda dell’occhio rimasto… Perché di lei, nello Specchio, non vi è traccia. Il suo mento si poggia sulla mia spalla sinistra e guarda dritto davanti a sé: sta guardando dove guardo io, sta guardando nello Specchio… Ma io non la vedo.
Vedo a malapena che ancora sorride gentile; con la mano sinistra sale dolcemente e mi carezza il viso fino a scostarmi alcune ciocche di capelli, come il gesto di una madre amorevole. Come una madre amorevole che carezza la sua bambina mentre la pettina di fronte allo specchio prima di annodarle il fiocco del grembiule, prima di uscire per portarla all’asilo.
Ho schifo. Provo, brutalmente, ribrezzo. Ma non di lei, per lei. Non vedo la sua mano carezzarmi il viso, nello Specchio, ma vedo quella cosa che sono diventata. Dovrei avere pietà, avrei pietà, forse, se si trattasse di un’altra. Ma si tratta di me. Ho orrore. Addirittura mi trovo ad ammettere che, anche se provassi pietà, anche se quella cosa fosse “un’altra”, non riuscirei mai a toccarla, ad accarezzarla. Sono orribile… mostruosa… corrotta.
Per questo il gesto della Direttrice è ancora più confortante della carezza di una madre, perché sono tanto orrenda che sento che nemmeno una madre potrebbe stringere una figlia simile. Lo so: una madre è disposta a tutto per la propria figlia, per il proprio figlio, ma tanto sono distorta e deturpata. Tanto da fare orrore anche a una madre. E, in cuore mio, so che la Direttrice non è mia madre. So che nemmeno lei, o forse lei meno di tutte, abbraccerebbe l’orrore che vedo nello Specchio. Per questo le sono grata. Perché quel suo gesto mi dice che, contro ogni tragica percezione, non sono ancora così. Che, da qualche parte, la Direttrice sta ancora stringendo il mio corpo non deturpato. Questa è l’unica briciola di speranza in un orrore altrimenti senza confini. Mi ci aggrappo con tutta me stessa e continuo a ripetermi “Non sono di lì, non sono di lì”.
E anche se, pur senza vederlo davvero, percepisco che il sorriso della Direttrice è sì come sempre gentile, ma decisamente compiaciuto nel constatare il mio terrore, le sono grata persino di questa sadica attenzione.